La sconfitta disastrosa a Xiangyang mina fortemente l’equilibrio mentale del Khan, tanto che Jingim, in sua vece, organizza un processo farsa a carico di Marco, durante la quale il giovane veneziano viene accusato di tutti i crimini possibili, dall’aver cospirato con Sidao per favorire la disfatta all’essere una spia del Papa inviato a sgretolare le fondamenta dell’impero mongolo. Marco, tuttavia, si difende stoicamente, ribadendo la sua fedeltà al khan, e arrivando anche a sfidare apertamente sia Jingim che lo stesso sovrano, mettendoli in guardia dalle conseguenze a cui andranno incontro sfidando un occidente che, se attaccato, farà fronte comune pur di riuscire a fermare l’orda mongolica. La sentenza, come era prevedibile, è di morte, e a nulla valgono i tentativi di Bayan, Byamba e altri per cercare di convingere Kublai a cambiare idea. Di contro la vittoria sui mongoli galvanizza Sidao, acclamato come salvatore della dinastia, il quale dopo avere eliminato l’imperatrice con una rudimentale pistola diventa in pratica il sovrano ombra dell’impero alle spalle dell’infante Gong Di, di cui divene maestro e consigliere, iniziando a pianificare una rapida riconquista di tutta la Cina sfruttando il momento di debolezza di Kublai. Marco, però, si rifiuta di morire additato come un traditore, e dietro consiglio di Bayan decide di provare la sua fedeltà al Khan donandogli lo strumento in grado di portarlo oltre le mura di Xiangyang: il trabucco. Ne parla con Yusuf, che in un primo momento non sembra dargli ascolto, ma che alla fine decide di dargli fiducia, e tenta ancora una volta di intercedere per lui presso Kublai. Il khan però, per l’ennesima volta, rifiuta di dare ascolto alle parole del viceré, e così questi, per metterlo con le spalle al muro, arriva ad autoaccusarsi pubblicamente di tutti i crimini imputati a Marco, costringendo Kublai a dichiararlo colpevole e metterlo a morte al posto del veneziano, che viene quindi rilasciato.